Itinerari dal mondo

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PADOVA. DA GIOTTO A DONATELLO VIAGGIO NEI GIOIELLI ARTISTICI DELLA CITTÀ VENETA

Dallo splendore della Cappella degli Scrovegni alla straordinaria architettura del Caffè Pedrocchi Padova si conferma una città da visitare assolutamente.

di Fabio Massimo Penna

Una sinfonia di colori. Il visitatore che arriva nella Cappella degli Scrovegni rimane estasiato di fronte alle storie di Cristo affrescate da Giotto. Il pittore toscano mostra una straordinaria capacità narrativa congiunta a un realismo che fa della sua pittura una sorta di affascinante recita teatrale: “Ci pare di essere testimoni dell’evento reale come se fosse recitato sul proscenio” (E.H.Gombrich, La storia dell’arte, Phaidon Press Limited, Londra). Nella sua inarrivabile dote pittorica Giotto riesce a restituire le qualità tattili delle cose raffigurate, con una linea marcata che definisce un’energia volumetrica a stento trattenuta e i colori vibranti che conferiscono robustezza alle forme. L’interesse dell’artista è rivolto non solo ai gesti e ai movimenti corporei ma anche agli impulsi interiori, ai moti dell’anima. La grande misura e l’armonia donano alla pittura di Giotto una straordinaria naturalezza. Gli affreschi della Cappella degli Scrovegni vengono realizzati tra il 1302 e il 1305, dopo un periodo trascorso a Roma durante il quale ha l’occasione per conoscere l’opera di Pietro Cavallini. In precedenza, tra il 1296 e il 1299, era stato ad Assisi dove aveva realizzato gli affreschi con le Storie di San Francesco nella Basilica Superiore.

Padova ha un ruolo fondamentale nella diffusione nel Nord dell’Italia delle novità rinascimentali. Nel 1443 uno dei tre padri del Rinascimento, Donatello (gli altri due sono Brunelleschi e Masaccio) arriva nella città veneta dove risiede per una decina di anni. L’ambiente culturale padovano si dimostrò estremamente ricettivo e la presenza del grande scultore lasciò una traccia feconda che avrebbe consentito uno sviluppo in direzione ‘moderna’ all’arte veneta. Due opere impegnano l’artista fiorentino: il monumento equestre a Gattamelata e l’altare di Sant’Antonio nell’omonima chiesa. La statua del condottiero di Narni, posta su di un alto basamento, può essere guardata da una posizione ribassata ed è inquadrata dalla linea diagonale che parte dal bastone del comando e prosegue nel fodero della spada sul fianco del cavaliere, mentre il movimento in avanzata del cavallo viene bloccato dalla palla posta sotto la sua zampa. La scultura, che si staglia imperiosa nello spazio cittadino, fu ideata come cenotafio (monumento funebre privo dei resti dell’effigiato) di Erasmo da Narni. Il riferimento scultoreo è il Marco Aurelio capitolino. L’altare di Sant’Antonio ebbe un enorme impatto sull’ambiente artistico settentrionale. La disposizione delle statue è dovuta a una ricomposizione effettuata da Camillo Boiro a fine Ottocento. La scultura della Vergine con il Bambino e i sei santi formavano una straordinaria sacra conversazione dotata di rilievo plastico e tridimensionalità. Attualmente sul gruppo incombe un drammatico crocifisso bronzeo. Nei sottostanti rilievi la Deposizione di Cristo nel sepolcro, realizzata in porfido con l’innesto di intarsi di marmi colorati, esibisce uno spazio nascosto dall’affollarsi di figure drammaticamente atteggiate in primo piano. Il bassorilievo bronzeo con il Miracolo del cuore dell’avaro è caratterizzato dal moto ondulatorio della massa di personaggi in primo piano inseriti in un’architettura perfettamente tirata in prospettiva. Ancheil Miracolo della mula mostra la sapienza prospettica dello scultore nei tre grandi archi voltati a botte sotto i quali si svolge l’evento prodigioso.

Nel complesso degli Eremitani la cappella Ovetari venne affrescata da Andrea Mantegna. Vi accenniamo di sfuggita poiché il ciclo è stato distrutto da un bombardamento durante la Seconda Guerra Mondiale. Gli affreschi con il Martirio di San Cristoforo e il Martirio di san Giacomo mostravano già la linea tagliante che dona consistenza statuaria alle figure mantegnesche, la perfetta resa prospettica e la passione per l’archeologia delle straordinarie opere successive.

Un luogo dove i gentiluomini potessero sorseggiare un caffè e magari fumare un sigaro e discutere delle notizie lette sui giornali. Questi nobili pensieri dovevano occupare la mente dell’architetto e ingegnere veneziano Giuseppe Jappelli mentre progettava il Caffè Pedrocchi (1816 – 1820) a Padova. Siamo di fronte a un capolavoro assoluto del neoclassicismo in architettura. Formatosi attraverso viaggi all’estero, soprattutto in Francia e in Inghilterra dove si distinse nella progettazione di giardini, Jappelli connota la costruzione con un austero stile dorico al fine di organizzare gli spazi con razionalità e coerenza. I due avancorpi dorici inquadrano la parte centrale arretrata che si richiama all’ordine corinzio. Nel 1836 Jappelli affianca al caffè l’ambiente della pasticceria denominato Pedrocchino. Genialmente lo progetta in stile neogotico creando così un piacevole contrasto con la struttura del Pedrocchi. I due edifici diventano una sorta di salotto cittadino all’aperto, un piacevole luogo di ritrovo per la popolazione. Questo duplice capolavoro architettonico rinvia all’importanza che all’epoca veniva conferita all’idea di Caffè come luogo di scambio di idee: “Il Pedrocchi di Padova, città sede di un’antica e rinomata università, era soprattutto centro di vita intellettuale e politica” (Piero Adorno – Adriana Mastrangelo, Dell’arte e degli artisti, G. D’Anna Casa editrice, Firenze, 2002).

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